Articolo di Silvia Scozzafava, ecologa, MSc, PhD, Founder di Aichi Obiettivo 20 srl, Startup Innovativa a Valore Sociale sulla sindrome di Dunning-Kruger nei mestieri che riguardano l’ecologia.
Come recita Wikipedia, “L’effetto Dunning-Kruger è una distorsione cognitiva a causa della quale individui poco esperti in un campo tendono a sopravvalutare le proprie abilità autovalutandosi esperti a torto, mentre al contrario persone davvero competenti hanno la tendenza a sottostimare la propria reale competenza”.
Sono laureata in Scienze Ambientali, e come molti colleghi appartenenti a discipline “figlie di un dio minore”, non tutelate da un ordine e nemmeno da un albo professionale, subito dopo la laurea ho dovuto scontrarmi con la scarsa considerazione della nostra professione e la rarità delle opportunità lavorative (per “lavorative”, intendo retribuite), il che mi ha portato immediatamente all’estero per un anno e mezzo, dove la mia competenza era invece valorizzata ed apprezzata.
Tornata in Italia, dopo un periodo di sereno precariato in pubblica amministrazione, sono stata particolarmente fortunata da vincere un concorso (beh, anche abbastanza brava, altrimenti ricadrei nella seconda parte della definizione della sindrome di Dunning-Kruger!). Ho quindi lavorato per più di quindici anni nel settore della tutela ambientale e della conservazione della natura, osservando dal di dentro le dinamiche e l’evoluzione del settore.
Quello che mi ha colpito, e che vedo accadere sempre più, è che la questione ambientale negli ultimi anni è letteralmente esplosa, ma il livello di competenze di coloro che se ne occupano non si è di pari passo elevato. Lungi dall’incontrare sempre più spesso professionisti del mio ambito disciplinare, incontro invece sempre più spesso persone che hanno acquisito qualche qualifica in un campo correlato con le questioni ambientali solo dopo un percorso di studi, e spesso anche di lavoro, svolto in tutt’altro ambito disciplinare. Si tratta quindi spesso di competenze applicative, indubbiamente molto utili, ma non comparabili a quelle di coloro che hanno costruito il proprio percorso formativo interamente sul ventaglio di scienze che consentono di comprendere in modo profondo ciò che avviene nell’ambiente, e di affrontarlo anche con spirito critico.
Professionisti ambientali, insomma, figli dell’ambientalismo, persone sensibili e mosse da ottime intenzioni che hanno sposato una causa perché si sono resi conto che una mobilitazione è necessaria ed indifferibile. Questo è straordinario, ed encomiabile. Ma è sufficiente per affrontare in modo efficace le grandi sfide che abbiamo davanti, tenendo conto che il tempo a disposizione per risolvere problemi ambientali irreversibili è sempre più scarso?
Immaginiamo un Paese in emergenza pandemia, in cui in mancanza di dottori, tutti gli infermieri, i barellieri, i volontari della Croce Rossa e pure i fisioterapisti, presi dall’urgenza e dallo stato di necessità, si impegnano h 24 nell’accogliere i pazienti al triage, nel prescrivere analisi, esaminare referti e decidere ricoveri e terapie. E il Direttore Sanitario, lungi dal percepire la mancanza di medici come un problema, e vista la grande disponibilità di infermieri e barellieri e volontari, li integra nell’organico ospedaliero nelle posizioni dei primari; i posti in organico sono tutti occupati, qualcuno si prende cura in qualche modo dei pazienti, tutti sono impegnati al massimo delle loro possibilità, e nessuno pensa che ci sia niente da migliorare.
Certo, questa storia è paradossale e per fortuna non si realizzerà mai. Tutti sanno che i medici sono indispensabili al buon funzionamento di un ospedale, e che le competenze di un medico sono fondamentali per salvare le vite dei pazienti. Non vi è però altrettanta consapevolezza dell’importanza dei “dottori dell’ambiente” nel fare diagnosi e prevedere strategie correttive per i problemi ecologici, che siano locali o planetari.